Sabato, dodici aprile duemilaotto, ore sedici.
Mi avevan detto male: il seggio dell'ospizio si è rivelato essere... il seggio dell'ospizio. Dove votano solo quelli dell'ospizio. Per cui la prima consapevolezza del sabato pomeriggio è che gli iscritti a votare saranno 69. Saranno giornate
molto lunghe.
Le formazioni:
- Presidente, qualche anno più di me, preso di peso dal Manuale del Perfetto Berlusconiano;
- Segretaria, amica del Pres, molto meno ingessata ma altrettanto perfetta berlusconiana;
- Scrutatore1, thirtysomething con prole ammalata e tendenze centriste;
- Scrutatore2, ultrasettantenne un po' pedante che conosce anche il terzo nome dell'ultima delle infermiere;
- Scrutatrice3, vivace signora settantacinquenne che ne dimostra venti in meno e che ha l'aria di averne viste tante;
- i tre tizi del seggio speciale, che dovrebbero raccogliere i voti di tre persone. "Dovrebbero", perché una ha deciso di votare nel seggio normale, una non riesce a procurarsi i documenti necessari e una è peggiorata. Quindi stan lì un quarto d'ora e poi se ne vanno a casa.
Locale piccolo, cabine arrugginite e, soprattutto, non predisposte per far votare le persone in carrozzina. Allestiamo una cabina di fortuna requisendo un classico divisorio da ospedale, rabberciato con lo scotch di carta gentilmente offerto dal Viminale, e un tavolino non eccessivamente sano. Il Pres timbra la prima scheda, ma esagera con l'inchiostro e un'enorme pozza di unto nero si spande ovunque. "Facciamo che questa la mettiamo in fondo, tanto non voteranno mai tutti e 69".
Centocinquanta firme dopo, sigilliamo tutto e torniamo a casa.
Domenica, tredici aprile duemilaotto, ore otto.
Pres: "Dai che ce la prendiamo con calma."
Apriamo il seggio e, nell'ordine:
- arrivano in quattro contemporaneamente a votare;
- nessuno di questi quattro è iscritto alle liste del seggio, ma ha un certificato del Comune di provenienza che gli permette di votare lì;
- nessuno ci ha detto come e dove andassero registrati;
- io e la Segr cerchiamo di contattare quelli dell'Ufficio Elettorale, ma anche loro hanno pensato "dai che che la prendiamo con calma" e si sono dati alla macchia;
- una dei quattro in attesa di voto è una ottuagenaria vamp calabrese particolarmente indisponente.
Un, due, tre: casino.
Alla fine si risolve tutto, i vecchietti votano senza troppi problemi e posso concentrarmi sulle note di colore. Una signora del 1911, tanto timida quanto lucida. Un signore del 1913, con borsalino, baffo neanche troppo brizzolato e una vaga rassomiglianza con
Nonno Simpson, che arriva, vota e sta lì dieci minuti a raccontare epiche storie di quando faceva il carrozziere. Una povera signora cieca da trent'anni in balia di una nuora-virago che sbraita, mentre il figlio sta lì impalato con un'aria mogia e succube. Anche se la scena più bella è quella di un marcantonio ultraottantenne, trasportato faticosamente su una sedia a rotelle dall'altrettanto anziana moglie. Viene portato nella cabina di fortuna, vota e la moglie gli dice con un filo di voce: "Hai visto? Sei riuscito a votare un'altra volta." E lui singhiozza, singhiozza come un vitello, e non riesce più a smettere, e lo portano via che ancora sta piangendo.
Arriviamo alle 18 con una quarantina di votanti, poi 4 ore di nulla totale: il Pres scambia dotti pareri con un rappresentante di lista del PdL, la Segr compila verbali a getto continuo, gli scrutatori ammazzano il tempo imbustando cinquemila cartoncini gentilmente offerti da S1.
Quattrocento firme dopo, sigilliamo e torniamo a casa.
Lunedì, quattordici aprile duemilaotto, ore sette.
Dopo l'esordio del giorno prima, mi aspetto che alle sette e due minuti spuntino fuori orde di vecchietti con certificati stampati su tavolette d'argilla da un comune della Slovenia passato nottetempo sotto la giurisdizione italiana. Invece il primo elettore arriva verso le dieci e mezza, permettendoci di compilare tutto il compilabile.
Di personaggi ce ne sono pochi, a parte un vecchio
cumènda milanese che si lamenta della sonnolenta Brianza, e che viene blandito da S2 con una copia di Tuttosport. S3 racconta di quando aveva un negozio di alimentari a Milano e Renato Pozzetto le chiedeva una teglia di lasagne da infornare per gli ospiti.
Si chiudono le urne, si passa allo scrutinio. Che, in sè, scorre via veloce: 51 votanti, nessuna contestazione, l'unica nulla è di uno che ha fatto la croce su tutti i simboli tranne quello del PdL. Pareggio perfetto: una ventina di voti a testa per PD e PdL+Lega, 3 per l'UDC, pochi voti "creativi" (un Partito Liberale, un Per il Bene Comune, un Partito Comunista dei Lavoratori). Che, sommato alla faccia scura del rappresentante del PdL, mi faceva quasi ben sperare.
Infine, la litania dei plichi. Prendi una busta, mettila in un'altra busta, chiudi la busta, sigillala, timbrala, firmala. "Merda, ci siamo dimenticati il registro ventottobarraeffe". Dissigillala, metti il registro, leggi venti volte il regolamento, controlla le firme, ricontrolla le firme, risigillala, ritimbrala, rifirmala. Ripetere il procedimento per
tutte le buste.
Dopo un paio d'ore, chiudiamo tutto e andiamo tutti in Comune a consegnare gli ultimi plichi e a ritirare il soldo. Ufficio tributi, l'impiegata scorre il suo piccolo registro.
"Ma tu sei il figlio di E.?"
"Sì, sono io."
"Assomigli in maniera impressionante a tuo nonno."
Esco, salgo in macchina, le proiezioni sono orripilanti. Piove, sembra autunno inoltrato e finisco a pensare alle storie di questi giorni e al nonno che non ho mai conosciuto più che al governo, alle maggioranze, ai flussi elettorali. E mi sa che è meglio così, a prescindere dal vincitore.